Parla uno dei sopravvissuti alla sciagura: cinque gli sciatori travolti
«Così la valanga ci ha sepolti»
«Ci siamo liberati in due, abbiamo scavato, Marco non rispondeva»


ROVERETO. «Eravamo a fine escursione. Scendevamo seguendo la traccia recente di altri scialpinisti, in fila. Cinque di noi erano vicini, il sesto era rimasto indietro per un problema a un attacco: poteva avere un paio di minuti di ritardo. All'improvviso ci è mancata la neve sotto i piedi: siamo stati travolti e trascinati a valle». Michele Fait, uno dei sopravvissuti alla tragedia del Latemar racconta.


ROVERETO. «Eravamo a fine escursione. Scendevamo seguendo la traccia recente di altri scialpinisti, in fila. Cinque di noi erano vicini, il sesto, Damiano Feller, era rimasto indietro per un problema a un attacco: poteva avere un paio di minuti di ritardo. All'improvviso ci è mancata la neve sotto i piedi: un grande lastrone si è mosso e noi eravamo proprio in mezzo. Siamo stati travolti e trascinati a valle». Michele Fait è rimasto «a galla». Marco Filippi e Marco Ferrari - dice - erano completamente coperti. «Sentivamo solo i due segnali degli Arva: ci siamo buttati a scavare».
In verità, racconta Fait, dei cinque sciatori travolti solo due sono riusciti a liberarsi da soli. Un terzo, sepolto fino al collo, era immobilizzato ma non aveva problemi. «Ci ha rassicurato che stava benissimo - racconta Fait - e allora ci siamo subito messi alla ricerca degli altri. Quando un uomo è travolto da una valanga, le possibilità di salvarlo crollano dopo pochissimi minuti: la priorità assoluta è liberare la testa, in modo da garantirgli la possibilità di respirare. E' quello che abbiamo fatto, localizzando Marco Filippi e Marco Ferrari grazie ai segnali degli Arva. Penso che nel giro di un minuto, massimo due, entrambi erano almeno parzialmente dissepolti. A quel punto abbiamo chiamato i soccorsi».
Su questo, c'è stato a caldo chi ha criticato proprio il ritardo nell'allarme.
«Abbiamo seguito non solo il buonsenso ma anche la procedura universalmente adottata in caso di valanghe. La priorità immediata è riportare all'aria i travolti, poi si chiamano i soccorsi. Per veloce che sia, l'elicottero non arriverà mai in tempo per estrarre dalla neve qualcuno entro il paio di minuti che un uomo può resistere senza respirare. Il medico è indispensabile, ma non per scavare. Sinceramente, non credo che dal punto di vista dei soccorsi ci possiamo rimproverare nulla».
Pochi minuti tra la valanga e il recupero, ma le condizioni di Marco Filippi sono parse subito disperate.
«Io non sono un medico e saranno i medici a doverlo dire, ma la mia impressione è stata che Marco fosse già morto. Era in una posizione assolutamente innaturale, non rispondeva agli stimoli. Poi si è tentata la rianimazione fino in ospedale, ma sembrava da subito evidente che la situazione era disperata. Del tutto diverso il caso di Ferrari: stava bene, sotto choc ma perfettamente vitale».
E probabilmente proprio la rapidità con cui è stato estratto dalla neve lo ha salvato: non aveva lesioni interne fratture, ma completamente sepolto senza Arva e dei compagni coi nervi saldi e l'attrezzatura da scavo, poteva soffocare sotto la neve. Ma avevate avuto la percezione del rischio di valanghe?
«Per tutta la salita avevamo studiato i percorsi in modo da evitare gli evidenti accumuli di neve: sapevamo che potevano essere pericolosi, anche se le condizioni generali di neve e temperature non facevano supporre un rischio elevato di valanghe. Al ritorno, su quella traccia fresca, ci sentivamo relativamente sicuri. Sicuri come ci si può sentire in montagna: sempre al 99 per cento. Rimane sempre un margine di rischio che chi va in montagna conosce ed accetta: non sei in palestra in pista. Tutti noi ne eravamo consapevoli».